Già dai tempi dell’università (forse buffo da dire, ma questo succedeva nell’altro secolo) sono sempre stata piuttosto interessata agli imballaggi. Ciascuna lezione di Tecnologie del condizionamento mi ha messo di fronte a una serie di scoperte legate alle peculiarità dei materiali impiegati, alle caratteristiche tecnologiche e di processo adottate, e alle prestazioni che i materiali e gli imballi devono garantire. Era uno degli ultimi corsi che si frequentava al quinto anno e quindi ci si presentava in aula anche con una consapevolezza d’insieme che sicuramente aiutava nella comprensione. Non ultimo il docente: un solido punto di riferimento in materia. Il lavoro, con gli anni, mi ha portato a occuparmi di imballaggio, questa volta relativo ai prodotti cosmetici e principalmente per quanto riguarda gli aspetti valutativi e di conformità regolatoria. Ma il packaging resta un filo conduttore che va oltre, attraversa anche i miei interessi personali e, in particolare, la sua gestione nel post-consumo.
Il packaging lo conosciamo come qualcosa in grado di contenere un prodotto, di proteggerlo dai danni meccanici, di rappresentare un’adeguata barriera a gas e vapori, di prevenire o ritardare la degradazione biologica o fisica, facilitare la movimentazione e il magazzinaggio, presentare il prodotto in modo attraente, informare e, non ultimo, identificarne il contenuto1.
Tuttavia, a pandemia in corso, nuotando a larghe bracciate in un mare di notizie, ci siamo imbattuti in interrogativi dettati dal bisogno di capire se, almeno dentro casa, isolati dagli affetti di amici e parenti e sommersi dalle videoconferenze, ci saremmo potuti sentire al sicuro. Ed è così che siamo stati tranquillizzati da un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità2 che ha subito chiarito che il virus SARS-CoV-2 si diffonde per contagio interumano e non vi sono evidenze di trasmissione associate agli operatori del settore alimentare o agli imballaggi per alimenti. Probabilmente questo tipo di estensione è legittima anche per il comparto cosmetico, packaging compresi. Noto questo, i prodotti sfusi perdono il fascino che erano stati in grado di guadagnare e allora “imballiamoci” anche più volte, e poi Whatever will be will be/The future’s not ours to see.
Una domanda: “Capito che il packaging in questo momento non è un nemico bensì un’arma di difesa (così come lo è sempre stato, mi permetto di aggiungere), che sia il momento di abbandonare i brutti pensieri che ci eravamo fatti su uno dei materiali più utilizzati per imballare i nostri prodotti (alimentari o cosmetici che siano)?” Io colgo un po’ di volubilità nel passaggio da odiatori incalliti del packaging, considerandolo superfluo, quasi un lusso per ricconi non curanti delle sorti del pianeta e sicura causa di tutti i mali, a salvavita. Resto dell’idea che il problema non sia il packaging, bensì la sua gestione o, peggio ancora, il suo abbandono.
Io credo che la direzione sia quella di applicare gli sforzi della ricerca e le tecnologie a disposizione, o quelle che verranno messe a punto, per sfruttare al meglio le risorse di cui disponiamo nel post-consumo. A questo proposito, sono stati istituiti diversi tavoli di lavoro seri a livello nazionale e internazionale; si lavora protèsi affinché l’obiettivo sia avere qualcosa che sia (ri)utilizzabile, idoneo tecnologicamente e sicuro: gli addetti ai lavori mi dicono che non è semplice, ma non ci si arrende. Gli sforzi in campo sono notevoli, ognuno può fare la propria parte: occorre chiarezza e un obiettivo condiviso.
1Piergiovanni L, Limbo S (2010) Food packaging. Materiali, tecnologie e qualità degli alimenti: Materiali, tecnologie e soluzioni. Springer-Verlag, Milano.
2www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-rapporti-tecnici-iss